Sei giovani milanesi, allievi di Domenico Cantatore, fra cui una ragazza, tengono una mostra senz’altro interessante nella Galleria del Centro friulano d’arti plastiche in via Stringher a Udine. È in uso lo stesso costume di uscire dal convenzionale con qualsiasi espediente e questi sei sono ricorsi all’espediente di presentarsi con una locandina metallizzata che riproduce le loro fotografie (una fotografia che li coglie tutt’insieme conversanti, ridenti), una che indica soltanto i loro cognomi in quest’ordine: Tavarella, Moro Addamiano, Albavera, Benati e Gesmundo.
Non saprei dire a che cosa veramente l’espediente possa giovare, non certo alla completa informazione, e io non so quale dei sei appartenga al gentil sesso, e non è particolare privo d’importanza. Per fortuna la loro ricerca di nuovo, di anticonvenzionale, possibilmente di creativo, si svolge in un campo più impegnativo e producente e per cominciare, nessuno dei sei va dietro al maestro dell’insegnamento del quale utilizzano prima di tutto la sacrosanta libertà dell’artista e poi la devozione all’ordine del buon mestiere, alla sua pulizia e genuinità (e questo, mi pare, nella maniera convenzionale, che molto spesso è ancora la più giusta e seria).
Ciascuno dei sei va per la propria strada senza apparenti legami programmatici all’infuori di quello generico del superamento del figurativo e anche di quell’astratto e suoi derivati che tennero il campo fino ad alcuni anni or sono: dunque tutti e sei mostrano cultura e sensibilità aggiornate e tuttavia già confondentesi in una retroguardia che sembra aver già detto ciò che poteva dire sia in materia di significati, sia in quella di linguaggio; insomma, dal punto di vista della percezione del mondo e della sua traduzione in immagini, poco di imprevisto, di sorprendente, di avanguardistico.
All’infuori di Gesmundo, che a me pare il più istintivo, quello che più si abbandona senza programmi al piacere di dipingere, che vi si abbandona improvvisando con colori festosi, freschi, irrompenti in composizioni che discendono dalle vecchie naturemorte alleggerite del peso dell’oggettività e lanciate in un lirismo direi vangoghiano; all’infuori di Gesmundo, ripeto, gli altri sono presi da un senso del dolore, come da un presentimento: respirano, insomma, quel clima che avvolge l’arte contemporanea in generale.
Non mi sembra sia qui il caso di entrare in esami particolari: dicevo che la mostra è interessante e lo è perché gli espositori sono intelligenti e il loro lavoro, che ha raggiunto livelli molto apprezzabili, oltre alla grande cura della tecnica, dimostra una volontà d’impegno pensoso nell’essere veramente pittori e non nel sembrarlo con rumorosi atteggiamenti.

Arturo Manzano, Sei pittori milanesi, Il Piccolo di Trieste, 2 giugno 1970



Caro Gesmundo,
ho visto con vero piacere le opere che mi hai mostrato per il tuo debutto a Bari con una mostra tutta tua. Sono certo che il tuo lungo e fiducioso lavoro avrà il successo che merita.
Non è di tutti i giorni ormai trovarsi di fronte a un giovane di autentiche qualità e di sicura forza morale. Io che per anni ti ho avuto vicino nella scuola e nel mio studio posso ben dire, nel caso tuo, che «le qualità nascono dalle virtù». Ti so uomo che della propria modestia, direi umiltà, ne fa motivo di profondo rispetto nei confronti dell’arte e della propria serietà d’impegno.
Con i migliori auguri ti saluto affettuosamente.

Domenico Cantatore, Milano marzo 1972



Ho impiegato parecchi anni a pronunciare il suo nome che in lunghezza gli somiglia. E anche ora che lo frequento con più assiduità, e vedo da lontano oscillare la sagoma filiforme della sua persona come quella di un sonnambulo svegliato di soprassalto fra gente estranea, devo compiere un piccolo sforzo a non dire Gerundio al posto di Gesmundo.
Dove avrei potuto incontrare un giovane tanto buono e gentile se non da Cantatore? Domenico ha molto affetto per il suo allievo prediletto, arrivato da Terlizzi poco prima del ’60. Non so se Gesmundo abbia fatto il viaggio a piedi fino a Milano: quando lo guardo i suoi occhi teneri un po’ impauriti me lo confermano. A piedi da Terlizzi a Milano, come gli angeli delle nostre parti con le ali di cartone la notte di Natale.
Per sapere come è di dentro un pittore bisogna vedere i suoi dipinti, oltre il limite delle mani. Le mani possono ingannare. L’apparenza fisica di Gesmundo Sabino corrisponde poco all’animo suo così tanto rapito da una specie d’allegria agricola: orti, giardini, galli e galletti spavaldi decorati da coccarde, boschi d’un verde umidiccio – Brianza primaverile e autunnale! –, girasoli sullo sfondo d’un cielo quasi meridionale. I cieli di Gesmundo sono illuminati da una letizia variabile, con scintillamenti, frangie e sciarpette sospinte da una brezza capricciosa. Mi son ricordato di De Pisis, il mio vecchio Pippo dei paesaggi di Venezia. Potrei aggiungere: De Pisis passato attraverso i fauves.

Raffaele Carrieri, Cartolina per Gesmundo, marzo 1972



Terlizzese, Gesmundo si è affermato a Milano come uno dei migliori allievi di Cantatore. Il che non significa dipendenza stilistica dal maestro di Ruvo: se non per un certo gusto epico del colore sonoro, acceso di gialli e di rossi.
Ma Gesmundo ha una sua personalità. In possesso di una tavolozza scattante, di tipo fauve, evoca immagini vorticose con un segno-colore di tipo divisionista: ma rivolto non ad interessi percettivi, ma piuttosto a ritmi emotivi. Il risultato è che la visione di natura si dilata in risonanze cosmiche, si fa caos e gorgo al principio della creazione, o embrione in festosa fase di gestazione; non senza accenni (nelle opere che meno frettolosamente mettono a frutto questa intuizione) a evocazioni del subconscio. È da notare peraltro il tono schiettamente festoso, solare del linguaggio di Gesmundo (presentato dalla “Michelangelo”).

Pietro Marino, La Gazzetta del Mezzogiorno, 24 marzo 1972



Sabino Gesmundo: uno di quei giovani di quaggiù che hanno sentito imperioso il bisogno di emergere nel Nord: «Non so se Gesmundo abbia fatto il viaggio a piedi fino a Milano: quando lo guardo i suoi occhi teneri un po’ impauriti me lo confermano. A piedi da Terlizzi a Milano, come gli angeli delle nostre parti con le ali di cartone la notte di Natale»: scrive così Raffaele Carrieri (che è un pugliese, precisamente un tarantino di nascita) nella sintetica presentazione o “cartolina” fatta per Gesmundo, uno degli allievi prediletti di Domenico Cantatore (già, Terlizzi, è a due passi da Ruvo). Se a piedi – tanto per dire – oppure con l’autostop, non ha importanza: sono convinto, invece, che Sabino Gesmundo quel viaggio dodici anni fa , se lo sia fatto in terza classe dopo aver tanto meditato e dopo una notte di sogni e di speranze. Era un’avventura la sua: gli sarebbe potuta andare anche male. Per buona fortuna, invece, tutto è andato per il meglio, e Sabino Gesmundo con quella sua figura snella, armoniosa, elegante, anche se sempre modesta, è riuscito a guadagnarsi tante simpatie: non soltanto alla scuola del suo Maestro di Ruvo, ma anche fuori di essa ed ora a Varese presso il Liceo artistico dove insegna. Comunque la sua prima personale (vi dirò che Gesmundo di personali ne avrebbe potuto tenere tante prima di questa inauguratasi sabato sera: ma si è mostrato sempre contrario ed anche un po’ scettico) non poteva non tenerla a Bari e non poteva non allestirla presso il Circolo Michelangelo dove annovera i suoi migliori amici e dal quale ha ottenuto meritatissimi riconoscimenti.
Ma quale il risultato della pittura di Gesmundo? Carrieri scrive che «per sapere come è dentro un pittore bisogna vedere i suoi dipinti, oltre il limite delle mani». Ed allora vediamoli, esaminiamoli, analizziamoli questi dipinti del terlizzese che esercitano una immediata attrazione per lo scintillio dei colori iridescenti e per un loro potere di gusto raffinato che tuttavia giammai trascura il paesaggio oppure il tema campestre.
Gesmundo ama i colori e li interpreta in una maniera capricciosa, bizzarra, e costantemente primaverile. Li interpreta con architetture suggestive che sembrano richiamare i fuochi d’artificio delle nostre feste paesane per la loro tonalità viva, luminosa, ardente, e li inserisce in un paesaggio oppure in certi fiori di campagna od anche in alcuni meravigliosi galli nell’impeto della loro «regale autorità», sicché non è difficile ricavarne un contenuto di «allegria agricola» come giustamente rileva il Carrieri. E non è da scartare l’idea che questa «allegria agricola» risenta di un pizzico di nostalgia, diciamo pure che nella pittura del Gesmundo milanese o lombardo, esiste una sorta di gustoso omaggio alla sua terra ed alla sua Terlizzi. Come certi nastri e certi fiocchi dai colori più vivi e più contrastanti, che vengono distesi nel dì di festa.

Lallo, Colori primaverili e pirotecnici di Sabino Gesmundo, Il Tempo, marzo 1972



(…) Il problema della dissoluzione della forma è invece ancora presente in Gesmundo, nelle cui tele permane qualche aggancio figurativo, seppur minimo. Sulla scia delle esperienze di Jones, Gesmundo presenta una serie di visioni in velocità, in cui il colore nega i limiti reali della forma e al tempo stesso ne ricostruisce i volumi, in maniera astrattamente espressionistica.

Giovanni Brussich, Il Messaggero Veneto



(…) L’organica sostanza della barriera vegetativa è il tessuto elettivo della pittura di Sabino Gesmundo, un groviglio inestricabile rinserra i bagliori cromatici di un mondo che si dissolve nel fuoco di una breve stagione. Si avverte, in questa realtà sconvolta, il senso di un’apprensione oscura, di un presagio notturno. E la natura, ferita al cuore, distilla i suoi splendori nelle fibre e negli umori di un’ultima stagione.

Gianni Cavazzini, L’Avvenire d’Italia