Per Sabino Gesmundo
di Natale Addamiano
Titolare della Cattedra di Pittura
Accademia di Belle Arti di Brera
Il professor Sabino Gesmundo, che ho avuto la fortuna di incontrare e conoscere nel 1968, presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano nel corso di pittura tenuto dal Maestro Domenico Cantatore, divenne subito un punto di riferimento per la mia esperienza artistica. Fu un amico riservato, di poche parole, ma essenziale in tutti i suoi atteggiamenti. Era un osservatore attento della realtà, ma soprattutto con una larga e approfondita conoscenza delle varie tecniche dell’incisione, ausilio importante per Cantatore nella stampa delle sue acquetinte.
Nei miei confronti, in riferimento alla pittura dimostrò sempre una particolare stima. Silenzioso di carattere, Sabino era apprezzato per la sua disponibilità, per la sua capacità di confrontare le idee con quelle altrui in maniera sincera, senza inutili astuzie, in piena coerenza con i suoi valori, le sue convinzioni, la sua cultura, la sua educazione.
Maestro sensibile, io ho sempre visto in Sabino i suoi occhi onesti e limpidi, il suo sorriso perenne, il suo comportamento da galantuomo d’altri tempi. Ricordo il suo senso dell’ospitalità, allorché mi recavo nel suo studio, in piena sintonia con una solida caratteristica del costume pugliese; quell’accoglienza, quel rispetto assoluto per l’ospite. Così ho sempre visto Sabino, al di là dell’inevitabile retorica dell’addio. E così, mi premo di farlo conoscere a chi non ne ha avuto la fortuna, per rendersi conto che con uomini come Sabino un mondo migliore è sempre possibile. Sabino fu un vero punto di orientamento per tutti coloro che arrivavano a Brera presso la severa cattedra di pittura del Maestro Cantatore.
Era il mio primo giorno all’Accademia di Belle Arti di Brera e lì Sabino svolgeva le sue funzioni di assistente al Maestro Cantatore per la stampa incisoria, operazione nella quale Sabino era perfetto e, infatti, Cantatore era fiero di lui. Diventammo subito amici e iniziammo a frequentarci con discussioni sull’arte, la visita a mostre, la presenza a incontri culturali. Spesso ci trovavamo al Bar Giamaica davanti a un bicchiere di bianchino e penso che tutti e due, allora, aspiravamo a un sodalizio non soltanto di idee, ma di comunità di vita, un’unione che ci permettesse di resistere all’isolamento. La nostra preparazione, forse, era in parte approssimativa, ma certamente non priva di interessi e informazioni. Ricordo che passavamo giornate intere in aula, avvertendo di avere gli stessi problemi di fondo, oltre a quelli della sopravvivenza. Il nostro stare insieme ci fortificava in tutto; lo stesso Cantatore, che non poco ci aiutava, contribuiva ulteriormente a renderci forti e sicuri.
In pittura, tra il 1968 e il 1970, trovavamo interesse nelle opere di pittori come Sutherland, Bacon, Giacometti; invece, da parte mia, c’era una predilezione per Zigaina, Bragaglia, Romagnoni, mentre Sabino si orientava verso Cantatore e più tardi Sutherland. L’attenzione per le nuove ricerche espressive pesava su di noi e su altri studenti di Brera. Sabino aveva conosciuto poeti come Quasimodo, Carrieri, Gatto, oltre a Maestri amici di Cantatore: Gentilini, Brancaccio, De Robertis, nonché i professori di Brera: Marini, Usellini, Borra, Messina, Purificato e altri. Nel 1970 iniziammo le nostre prime uscite con esposizioni collettive: a Tradate, Parma, Udine, Molfetta e in altre città. Il gruppo era formato da me, Sabino, più Benati e Moro. Nel 1978 seguirono altre mostre con Ferretti e Marchetti.
Sabino ha raccontato attraverso i suoi dipinti le sue origini con maestria di tecnica ed espressività. Conosco i suoi dipinti presso la grande raccolta d’arte di Zeno Buttazzi, collezionista di Cantatore, Zigaina e altri. I suoi colori, infatti, hanno sempre affascinato questo collezionista.
Sensibilità da maestro, da galantuomo all’antica, sguardo puro, sorriso sereno: questi gli aspetti che maggiormente avverto quando penso a Sabino.
Negli ultimi tempi la nostra frequentazione si era ridotta e io cercavo di non intralciare ulteriormente i suoi gravosi impegni tra Milano e Lecco.
Sabino se n’è andato troppo presto, non senza, però, aver lasciato una straordinaria eredità morale che mai verrà dimenticata. Sempre, così lo ricordo, sostenne la buona pittura. Nel mio cuore rimarrà la gioia della sua confidenza, la sua assoluta tranquillità, il suo senso profondo dell’amicizia.
Sabino, un artista autentico, a cui Terlizzi deve un pezzo importante della sua storia artistica.
Tutto per l’Arte
di Duilio Bartolini
Docente di Disegno
Liceo Artistico Statale II “Caravaggio”
Milano
Quando nel lontano anno scolastico 1971/72, proveniente da Cagliari dove avevo avuto un incarico annuale, approdai al Liceo Artistico di Varese, conobbi il prof. Sabino Gesmundo; subito s’instaurò un rapporto di empatia che non tardò a sfociare in un’autentica amicizia, che durò per tutti gli anni che ci fu dato di passare insieme.
Voglio dire qualche cosa a proposito degli evidenti richiami nella pittura di Gesmundo ai modi del suo Maestro Domenico Cantatore.
Credo non si tratti della solita infatuazione dell’alunno nei confronti del Maestro, cosa del resto naturale in un giovane pittore che comincia a muovere i primi passi nel mondo dell’Arte, ma di una sorta di affinità elettiva.
Gesmundo era un uomo di sentimenti molto delicati. A questo proposito voglio raccontare un episodio da lui stesso riferitomi, che dimostra l’amore che Sabino portava al proprio Maestro: un giorno venne a sapere che Cantatore, ormai avanti negli anni tanto da non dipingere quasi più, era solito farsi accompagnare in un giardino pubblico che si trovava nelle vicinanze della propria abitazione; allora Sabino ogni tanto si recava sul posto e, procurando di non farsi scorgere, lo osservava mentre seduto su una panchina guardava malinconicamente la vita che scorreva: la gente che passava, le mamme che guardavano i loro bambini giocare. Sabino stava un poco a guardarlo tristemente, poi se ne tornava allo studio. Per dire dell’amore che aveva per il suo Maestro, che ormai non frequentava più.
Questo comportamento mi ricorda quello adottato da Giovanni Carnovali, pittore dell’Ottocento, nei confronti dei suoi vecchi genitori, che abitavano in una casetta in mezzo alla campagna bergamasca. Egli si avvicinava alla finestra e da fuori li osservava; visto che stavano bene, se ne tornava sui suoi passi.
Gesmundo era un uomo sprovveduto di fronte ai problemi della vita; egli stesso mi disse di non essere fatto per le pubbliche relazioni.
Era contrario a qualsiasi legame o costrizione, non concepiva un lavoro fatto su commissione. Dirò di più: per lui un artista non avrebbe dovuto sposarsi; riteneva quello della vita coniugale un tradimento alla passione per la pittura, che considerava l’unica sua verità. Era, insomma, per una totale libertà. Il suo sogno era di potersi dedicare solo alle cose dell’Arte.
La conferma l’ho avuta un giorno che gli proposi di venire con me in Sardegna, dove avevo una casetta sul mare in affitto per tutto l’anno: mi rispose che non poteva perché ciò gli avrebbe complicato la vita, e che tra l’altro non se la sentiva di salire su una nave. Gli dissi che avrebbe trovato spunti bellissimi per la sua pittura e che avremmo potuto dipingere insieme e che queste sue obiezioni mi sembravano esagerate; aggiunsi che non si doveva chiudere in quel modo. Sabino mi rispose: “Vedi, Duilio, la vita c’è chi la scrive e chi la vive”. Io ribattei che si potevano fare le due cose insieme, ma non riuscii a persuaderlo.
Un giorno che parlavamo d’Arte, mi disse che per lui l’Arte era essenzialmente un fatto culturale, più che un problema dell’animo. Questo spiega il suo modo di operare: partendo dalle esperienze di altri pittori e naturalmente portandole avanti secondo la propria sensibilità. Sosteneva quindi che l’Arte nasce dall’arte. Di questo abbiamo spesso discusso e finivamo in generale per essere d’accordo, salvo alcuni particolari che non sto a dire, altrimenti dovrei parlare di me stesso. Durante il periodo dell’Accademia, Cantatore gli indicò quali erano i pittori ai quali, data la sua inclinazione per il colore, poteva riferirsi. Sabino fece quindi alcune esperienze sulle opere di Chaim Soutine, André Derain e Maurice Vlaminck.
Dopo il periodo di vicinanza a Cantatore, Gesmundo ha sentito il bisogno di guardare ai risultati raggiunti da altri pittori: si rifece quindi alle esperienze del grande pittore inglese Graham Sutherland, di Enrico della Torre e di Attilio Forgioli.
Ultimamente Sabino lavorava a una delle colombe di Georges Braque. Sempre e comunque tutti grandi coloristi; gli altri pittori non lo interessarono mai.
Questo modo di operare è stato adottato da molti, in particolare da Vincent Van Gogh e da Pablo Picasso, i quali partendo il primo da Jean-François Millet e il secondo da Diego Velázquez, li reinventavano alla loro maniera, con la loro sconvolgente pittura, mantenendo però intatto l’impianto compositivo.
Invece di partire dalla realtà, dall’interpretazione della realtà, questi pittori partivano dal già interpretato: quindi gli altri più noi stessi, invece che la natura più l’uomo; partendo, così, da un gradino più alto, almeno così mi pare.
Ho voluto parlare dell’evoluzione artistica dell’amico Sabino col mezzo della scrittura, verso la quale non sono particolarmente portato, e tessere anche un elogio al candore e alla bontà morale di Sabino e alla sua capacità di onestà, raccoglimento e rinuncia.
Un segno della sua presenza
di Raffaella Sandiano
Scenografa
Alunna di Sabino Gesmundo
al Liceo Artistico Statale II “Caravaggio”
Milano
È molto difficile, per me, pensare al Professore come una cara persona che non c’è più, perché nonostante siano trascorsi molti anni dai tempi del “glorioso Liceo Artistico II”, lui ha sempre fatto parte della mia vita, con un segno della sua presenza, inviandomi uno scritto, un disegno, un articolo di giornale, che poi commentavamo per via epistolare arricchendolo dei racconti delle nostre esperienze di lavoro e di vita.
Al liceo sapeva starci vicino con grande intelligenza, non gli sfuggiva mai niente, era attento e sempre presente non solo per quanto riguardava l’insegnamento della sua materia, “ornato disegnato”, ma soprattutto sulle nostre vite: sapeva chi fumava di nascosto una sigaretta, o del filarino con il compagno di un’altra classe, e al momento giusto interveniva con una simpatica battuta... inattesa, che ci faceva capire che sapeva tutto, ci osservava, non ci giudicava, ma era pronto a intervenire con un consiglio o un’ammonizione se la situazione fosse diventata pericolosa.
Negli anni d’insegnamento (io ho avuto la fortuna di averlo come docente per tutti gli anni di liceo) ci ha sempre spronato con provocazioni varie per farci dare il meglio di noi stessi, affinché c’impegnassimo, pur non nascondendoci le grandi difficoltà che avremmo trovato sul nostro cammino; ci insegnava a credere in noi e nelle nostre capacità.
A noi ragazze ricordava spesso che la mancanza di tenacia e impegno ci avrebbe al massimo portato, “se fortunate”, a un impiego presso “la Rinascente”, e non al sognato mondo dell’arte.
Notevole era nei colloqui con i nostri genitori, che rendeva partecipi, esibendo loro i lavori svolti durante l’anno e spiegando le tecniche insegnate e i progressi intrapresi; non si limitava mai al singolo giudizio sullo studente, teneva moltissimo che i genitori capissero il percorso pittorico che stavamo seguendo e l’espressività di ognuno di noi.
Moltissimi docenti plurilaureati dovrebbero imparare l’umanità, la disponibilità e la passione che era nell’animo del Maestro Sabino Gesmundo... ma forse sono doti che non s’imparano… ci si nasce e basta, fortunati noi allievi che abbiamo beneficiato dei suoi insegnamenti e della sua amicizia.
Ovunque ponesse la sua tenda
di don Michele Cipriani
Arciprete
Mi si chiede un ritratto di Sabino Gesmundo; con piacere, senza pennello e colori, lo dipingo negli ultimi anni della vita, quando ormai l’età e l’arte hanno sfiorato la maturità.
Una figura alta, leggermente curva, con i capelli grigi al vento, il volto proteso verso la terra per carpirne il profumo e la bellezza, e gli occhi e il cuore che li impastano.
Sotto la Torre dell’Orologio o in corso Umberto, già via della Portella, l’incontro abituale, oppure nel Santuario della Madonna in Cattedrale.
Al Summer Bar la domanda di rito: "Cosa preferisci?". La risposta abituale: "Il Rosso Antico". E io di rimando: "Per me, il Bianco Nuovo". Poi i discorsi sull’arte, su Terlizzi, su Cantatore, sulle Fosse Ardeatine, sulle ultime ricerche storiche riferite all’azione di via Rasella, alla morte dei martiri e agli onori a coloro che avevano progettato l’attentato...
Nel 1998, l’anno di Cristo in preparazione al Grande Giubileo del 2000, invitai Sabino come anche altri artisti terlizzesi a illustrare l’Evangeliario del Vaticano II, donato da Paolo VI ai vescovi conciliari e offerto dal vescovo mons. Salvucci alla nostra Cattedrale, in continuazione ideale e storica con gli antifonari ordinati nel 1714-16 dal Provinciale Padre Michele Spinelli, miniati da Padre Domenico da Terlizzi ed elaborati nel Convento di Santa Maria la Nova a Terlizzi. Un volume pregevole, di alto valore artistico, testimone della fede degli artisti terlizzesi. Sabino mi mandò lo schizzo di una corona di spine e uno scattante gallo dai colori vivi, che annuncia un mattino di primavera.
Come dire: la croce, la sofferenza che attraversa la vita di ogni uomo, e in particolare quella della famiglia Gesmundo, ma aperta alla speranza della resurrezione certa, a una primavera feconda di fiori e di frutti immensi.
Personalmente mi ha regalato un quadro sugli ulivi di Puglia; un tema caro a Sabino perché l’ulivo esprime bene la sofferenza degli uomini del Sud ma anche la capacità di annunci di pace e di olio che accende luci e lenisce ferite.
Un altro quadro con dedica retrostante riproduce la Madonna di Sovereto ma con tratti e colori che non rimandano all’icona originale. La Madonna, più che Odegitria, è un’Addolorata con colori rossi vivi, il manto azzurro, il Bambino tutto bianco abbracciato amorosamente dalla Madre, e per sfondo un azzurro che richiama l’atmosfera tipica di Chagall.
Mi riferiva della devozione di sua madre alla Madonna di Sovereto, e la lettura che lei ne faceva: ai suoi piedi trovava conforto, speranza e aiuto per proseguire nel cammino.
Un ricordo piuttosto pittorico, il mio: come Sabino, alunno prediletto del ruvese Cantatore, da cui apprese la passione per la nostra terra, per la sofferenza, la dignità e l’orgoglio della gente del Sud, per la calda accoglienza a ognuno che bussi alla nostra porta, e la capacità di fare anche le valige e mangiare onestamente il pane amaro dell’esodo e di riuscire ad affermarsi e a ottenere rispetto ovunque ponesse la sua tenda.
Credo che Sabino, ascoltando questo mio ritratto, abbozzerebbe un sorriso e direbbe a mezza voce: "Tutto sommato, può andare".
Ciao, ciao, Sabino. Come sempre ci vogliamo bene, senza tempo e senza misura.
La sua Quaresima e la sua Pasqua
di Renato Brucoli
Editore – pubblicista
Ho conosciuto Sabino Gesmundo pochi anni fa. Quasimodo direbbe: in curva minore del vivere che avanza. Il passo appesantito; e tuttavia intuitivo, veloce, geniale, perspicace, ironico. Un personaggio. Una personalità.
Non mi ha fatto problema averlo incontrato tardi. Direi anzi il contrario. Ha costituito un vantaggio. Un dono.
In primo luogo perché saremo tutti, prima o poi, in curva minore: accadrà quando cercheremo le ragioni del vivere nell’erba che accima alla luce, nella piaga che buca la carne, per dirla sempre con Quasimodo. Un tempo di verità, che Sabino ha contribuito a svelare. La sua è stata un’esperienza anticipata. Lui un anticipatore. Per me, un prendere le misure; un vantaggio, appunto.
Poi perché alla pesantezza del corpo contrapponeva una leggerezza e una stupefacente sospensione da cui governava l’ordinaria sintassi del vivere. Da rimanerne spiazzati. La sua parola, come la sua tavolozza, avevano conseguito la brevità incisiva e sentenziosa di chi ha colto il segreto dell’esistere, scandito da una metrica ora capace di coinvolgimenti passionali, ora di stacchi, di attese, di silenzi meditativi. Accade quando l’uomo non è più assediato dalla grande scena del mondo, verso la quale – per la verità – Sabino ha sempre manifestato grande ritrosia, riuscendo a spaziare in altre dimensioni, come la natura, che ha eletto a rifugio e specola.
Ecco: il suo orizzonte risultava popolato, infine, da mani erbose, collane di alloro, vene vegetali, alberi di pietra e di sangue, acque che tracimano, profumi che inebriano, echi di timpani sepolti, gioie di foglie perenni, vibrazioni segrete... per continuare a dirla con Quasimodo, che il nostro, come il maestro Domenico Cantatore, avevano conosciuto e stimato. Alla sua essenzialità si erano abbeverati per ritrovarsi o perdersi. Capita quando il dominio della materia s’arruga, diventa residuale, e cresce l’interiorità.
Io spiavo in Sabino queste propensioni, da lui coltivate con l’arte e con la riflessione sulla vicenda storica familiare e sociale attraversata fin dalla fanciullezza dalla guerra e dal coro delle ingiustizie e dei drammi che ogni conflitto porta con sé. Quei fatti richiamava, sottoponendoli a indagine serrata.
Io tento una vita: ognuno si scalza e vacilla in ricerca, ha scritto Quasimodo in Curva minore. Proprio così: l’indagine condotta da Sabino Gesmundo non ha rifuggito la complessità dell’esistere, generando in lui guizzi e avanzamenti sicuri, come sbilanciamenti e rischi. Accade, appunto, a chi – per necessità o per vocazione – tenta una vita, e si scalza sui crinali della storia, e magari vacilla, in ricerca.
A volerne ricostruire la parabola, direi così: terlizzese dell’esodo a soli diciotto anni, Sabino Gesmundo si trasferisce a Milano nel 1959, per lavoro e per formarsi artisticamente all’Accademia di Belle Arti di Brera, allievo prediletto del maestro Domenico Cantatore e suo assistente di studio negli anni della contestazione giovanile.
Dal docente conterraneo assume lo sguardo contemplativo e lirico, tipico di chi proviene dall’entroterra mediterraneo; e quel mondo culturale, sostanzialmente assorto e meravigliato, poi guardato anche con occhio attento e indagatore, porta radicalmente con sé. Lo schiude alla luce del furore interiore che gli rinviene dal crogiolo della storia familiare, segnata in modo indelebile dalla persecuzione nazifascista che si accanisce tragicamente tanto sullo zio Gioacchino, trucidato alle Fosse Ardeatine nel 1944, quanto sullo zio Giovannino, confinato a Ventotene ancor prima, e neppure risparmia il papà Domenico, vigilato e sottoposto anch’egli a misure di polizia.
L’elaborazione di quegli eventi, che sanguinano ancora durante l’età infantile e adolescenziale come una piaga aperta, rafforzano in Sabino l’ideale di libertà, che non solo manifesterà strenuamente nella sfera civile, ma custodirà fino all’ultimo dei suoi giorni come tensione etica suprema e valore laico “fondante e illuminante” l’intera esistenza.
Nello stesso tempo la vicenda familiare fa divampare in lui, per analogia, l’incendio di un coinvolgimento pieno e di un processo imitativo altrettanto intenso che lo porta a fare dell’arte non solo la passione della propria vita, ma quasi una religione, così come il pensiero politico lo era stato per lo zio martire. Orizzonti (la politica e l’arte) da cui per combustione può nascere una responsabilità suprema a irradiazione collettiva, che va ben oltre il profilo individuale, e induce Sabino (come suo zio Gioacchino) a non sposarsi, e neppure a legarsi affettivamente in modo stabile, per non tradire la propria vocazione totalizzante.
Figurativo agli inizi, segnatamente cantatoriano poi – sia nella figura sia nel contorno di pasta vulcanica che la racchiude –, marcatamente espressionista nell’età di mezzo, surrealista infine, Gesmundo coltiva, da uomo libero, una visione dell’arte che va per approssimazioni e mai per approdi definitivi, in cui le tecniche formali vengono progressivamente subordinate alla riflessione interiore. In lui, l’arte torna con modernità alle ragioni costitutive, caratterizzandosi come scavo dentro la sostanza della pittura.
Ciò che oggi ci fa amare di più Sabino Gesmundo, è certamente il suo orizzonte di vita essenziale, sobria, che si specchia fin dagli inizi in un nucleo di oggetti semplici e naturali: girasoli, candelieri e terrine casalinghe, frutti e foglie aromatiche adagiati su un tavolo: un niente capace di creargli una felicità di rapporti compositivi e cromatici da riempire l’esistenza. Opere fatte per testimoniare la verità quotidiana che permette all’uomo di riconoscere se stesso nell’immediata e speranzosa certezza degli effetti e degli affetti familiari e sodali, riflessi nella poetica degli oggetti.
I fili della pittura di Cantatore e di Gesmundo suo allievo, riconducono insomma alla terra d’origine, intesa come terra madre. Il nostro assume dal maestro alcuni temi fondamentali. Come l’ulivo: il solenne, nodoso ulivo pugliese. Squassato dai secoli. Scavato dai venti. Arrugato dal sole. Eppure resistente, avvinghiato alle zolle, intimamente e radicalmente vitale; rappresentato sempre in primissimo piano per evidenziarne il corpo montagnoso attraversato da fibre rosso vulcaniche, da contorsioni e spasmi e scariche di energia che si stemperano solo nel riverbero del cielo e del fogliame. L’ulivo come metafora della vita dura dei campi, se non di una sorda tragedia: ogni corteccia ha il suo filo di sangue, la sua ferita asciugata dal vento. Ogni pianta ha le sue stigmate, prodotte dall’atavica persistenza in una terra senza balsami, ostile, senza fiumi e senz’acqua, arsa e sitibonda. La terra del grido e della pazienza antica, dalla quale Gesmundo si allontana senza mai separarsi.
I galli, altro tema tipico e ricorrente, sono estratti da una duplice matrice, lussureggiante e cupa insieme. Ugualmente identificativi dell’origine territoriale, alcuni si esibiscono alteri e aggressivi, altri assomigliano ad agnelli sacrificali. I primi pavoneggiano la propria sicurezza nello splendore cromatico che li caratterizza, altri appaiono spennati e come linciati. Stremati. Arresi. Impiccati. Sconfitti. Metafora anch’essi di una terra se non proprio senza vie di scampo, sicuramente senza vie di mezzo. Estrema. Perentoria. Miele o fiele.
Una pittura accesa, vulcanica, dai timbri forti, quella di Gesmundo, che assume tinte spente solo dopo la morte, quasi contemporanea, della madre e del maestro Cantatore, ai quali l’artista risulta legatissimo. Le tinte si attenuano in segno di lutto, secondo la vulgata mediterranea che vuole una partecipazione totale, della natura e delle persone – dentro e fuori, nell’intimo e nell’abito – ai giorni non lieti, che ammantano di un velo di tristezza anche la grammatica della visione.
Venuti a mancare i grandi punti di riferimento umani, fra cui anche il padre Domenico, sembra che Sabino Gesmundo non abbia più nulla da chiedere agli uomini. La sua indagine si sposta (ritorna?) sul mondo naturale, non più al modo di Cantatore, bensì secondo la visione di Sutherland, con cui il no-stro ha in comune molte circostanze: l’atavica passione per l’incisione, l’immersione nelle allucinanti visioni della seconda guerra mondiale, l’indagine sull’inconscio bombardato da quell’esperienza ineludibile, la suggestione psicoanalitica derivante da uno sguardo alla natura intesa non più e non solo come madre, ma anche e soprattutto come matrigna.
Gesmundo, che inizialmente viene considerato fra i principali allievi di Domenico Cantatore (che dal Sud d’Italia sale a Parigi) si fa epigono di Graham Vivian Sutherland (che dal Nord Europa scende a Parigi) e per compagni di “viaggio” elegge Natale Addamiano nella prima avventura, Ennio Morlotti nella seconda. Egli è sempre in autonomia, ma non in solitaria.
Riprende a cercare nella natura la verità celata, che le contorsioni dell’esistenza hanno come aggrovigliato e confuso. Nulla è più come prima. La natura gli appare, ora, non più rassicurante ma destrutturata e riassemblata, (non più cordone ombelicale ma vomero), minacciosa e inquietante, oscura e devastata, violata e ricomposta, privata della sua riconoscibilità e quasi intenzionata a nascondere la propria identità.
L’artista è convinto che l’esteriorità deforme dell’orizzonte naturale, possa aiutare l’uomo a recuperare la propria interiorità; che la vita organica racchiuda il mistero dell’esistenza; che l’intero ciclo vitale abbia come trasmigrato, e perciò cerca il bandolo della matassa esistenziale nelle forme aggrovigliate delle radici o nella quinta vegetale dei boschi. Diventa “scalatore di materia” secondo il pullulare della fantasia e dell’animo, lungo un cammino inesausto che approda solo a rare oasi e a pochi spiragli, o a qualche fuga in avanti per la tangente di Braque, con colombe foriere di una pace o almeno di una pacificazione agognata ma non ancora conseguita.
La pittura di Gesmundo diventa informale, che non vuol dire “senza forma”, come è ben visibile anche all’occhio non iniziato, ma “non formale”, nel senso di un iter che, tramite la materia e la sua forma, intende andare oltre, fino a lambire se non a penetrare il mistero dell’esistenza, individuando nel naturale la chiave di volta e la via d’accesso.
Una pienezza pittorica, quella di Sabino Gesmundo, che rinvia, insomma, alla pienezza umana dell’artista, accompagnata dall’inesausto crogiolo della sua ricerca esistenziale che non si ferma mai alla pelle delle immagini né sosta compiaciuta sulla grande scena del mondo. Una pittura che cerca nella natura la sostanziale idea dell’uomo, in sé e nel contesto umano, e non teme di attraversare la molteplicità dei nodi stilistici come fossero altrettanti snodi per ottenere risposta ai supremi interrogativi dell’esistenza: Chi sono? Da dove vengo? Dove vado?
Interrogativi che Gesmundo custodisce e interpreta nell’impasto estremo, gioioso e tragico, esuberante e duro, che segna la sua arte, costantemente riconducibile a due fattori identitari: la geografia e la storia come coordinate lungo cui scorre la vita. Geografia e storia sono il suo orizzonte di senso. Il Meridione e la Famiglia: che furono e sono la sua Quaresima e la sua Pasqua.
Una testimonianza e una suggestione pedagogica
di Nilo Cardillo
Dirigente Scolastico
Liceo Classico Statale “Vitruvio-Pollione”
Formia
La testimonianza
“Sabino è volato in cielo dallo zio Gioacchino che tanto amava, a lui ideologicamente molto vicino. Ha coronato la sua ricerca con la pubblicazione di TESTIMONIANZE” (Gioacchino Gesmundo, 16 maggio 2011 - ore 11.37)
L’arrivo di questo messaggio generò in me un forte senso di disorientamento, come se il processo ordinato degli eventi che mi preparavo a vivere fosse stato sconvolto. Sentivo una forte ansia che non riuscivo a controllare e placare, fino al momento in cui ho realizzato che il mio dovere era di partire, per essere vicino a Sabino nel suo ultimo viaggio terreno. Sentivo distintamente che, se non lo avessi fatto, nella mia vita sarebbe rimasta una lacuna. I rapidi preparativi, il viaggio in treno, l’arrivo a Lecco in una giornata luminosa di maggio erano stati come un farmaco, avevano dato un senso e una direzione all’agire in quelle ore dolorose. Poi l’accoglienza calda e amorevole dei fratelli Gesmundo, i loro volti segnati da una serena, umile, dolce rassegnazione, l’attesa accanto alla bara in cui Sabino giaceva col volto pacato di chi non aveva sofferto né sospettato l’arrivo di “sorella morte”. Infine la cerimonia in chiesa, di una solennità semplice e austera, il breve viaggio verso il cimitero per la tumulazione. Il Cimitero di Lecco è poco distante dalla casa dei fratelli Gesmundo, per cui sono certo che egli riceve da loro frequenti visite e li intrattiene in amorevoli colloqui e rievocazioni. Essere stato presente in quei momenti, trattato come un familiare, mi consola e rappresenta uno degli elementi di ricchezza della mia vita.
Arriva per ognuno di noi, quasi sempre all’improvviso, il momento in cui bisogna affrontare frangenti dolorosi. Uno di questi momenti è stato per me il giorno in cui, con la velocità istantanea delle comunicazioni odierne, mi è arrivata la notizia dell’improvvisa morte di Sabino. Sabino “è volato in cielo” in modi antichi, come nei secoli passati, quando nei confronti della morte gli uomini erano tecnicamente indifesi, ma psicologicamente attrezzati. Non c’erano allora, a ritardare la morte, i rimedi della medicina attuale. Anche io so bene che la morte è un fatto naturale, eppure, nel caso di Sabino l’ho vissuta come un accadimento prematuro, perché egli avrebbe meritato qualche anno in più, giusto il tempo necessario per vedere la sistemazione definitiva del monumento a don Pietro Pappagallo e a Gioacchino Gesmundo, un progetto lungamente accarezzato, perseguito con tenacia e infine realizzato. Sicuramente in qualche modo lo vedrà, perché io sono convinto che un legame tra i vivi e i morti rimane, anche se in forme per noi misteriose.
La mia amicizia con Sabino era arrivata tardi, negli anni della maturità. Si è trattato di un vero e proprio regalo fattomi dallo Zio Gioacchino, forse come premio per la mia decisione di intitolare a lui e a Pilo Albertelli la biblioteca del Liceo Classico “Vitruvio” di Formia. Erano entrambi docenti di storia e filosofia e subito avevano colpito i loro allievi per lo spirito nuovo che animava il loro insegnamento. La vita di questi due insegnanti sembrava legata da uno strano filo del destino. Dopo l’iniziale parentesi d’insegnamento presso il Liceo Vitruvio di Formia, avevano proseguito per vie diverse la loro carriera di insegnanti di liceo a Roma. Pur diversi per formazione intellettuale e per ideologia politica, di fronte alla dittatura fascista non esitarono a passare dal mondo degli studi alla concreta partecipazione alla lotta politica. Impegnati nella lotta antifascista a Roma, furono catturati e conclusero i loro giorni, fucilati entrambi alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944. Proprio nel ricordo della traccia di libertà così importante lasciata da questi due docenti, congiunti da questo tragico segno del destino, avevo deciso nel 1997 di intitolare ad essi la biblioteca del Liceo Classico di Formia. A quel punto, però, l’intreccio del destino ha coinvolto anche me, facendomi incontrare Gioacchino e Sabino Gesmundo, i nipoti del martire, con i quali è nata una profonda amicizia e un proficuo rapporto di collaborazione. Su questa base l’alberello della nostra amicizia è cresciuto rapidamente fino a diventare un albero possente e frondoso che si contende il cielo. Dalla decisione di intitolare a Gioacchino Gesmundo la biblioteca del mio Liceo mi è derivata una ricchezza di esperienze e di rapporti umani per cui posso affermare di aver ricevuto assai di più rispetto a quello che ho dato.
Da parte di Sabino, questa amicizia, venata di sincero e profondo affetto, ha finito per abbracciare mia moglie ed i miei figli, nei cui confronti egli ha avuto attenzioni e gesti di una dolcezza tale che solo un artista come lui poteva concepire. Negli ultimi anni, dopo essere andato in pensione, Sabino ogni giorno si recava a Milano, nel suo studio, al n. 2 di Via Farini, dal quale rientrava a Lecco nel tardo pomeriggio. Da quello studio, al sicuro come in un nido tranquillo, mi telefonava, seguiva i progetti, teneva i contatti, sempre avvolto nel fumo della sua sigaretta. Ne erano la spia i foglietti e le lettere odorosi di fumo che, nelle scadenze importanti, ci inviava. La mia famiglia fu coinvolta al punto tale che, quando il 23 marzo del 2007 fui invitato a Terlizzi per la presentazione di “Lettere ai familiari”, curata dall’editore Renato Brucoli, vollero accompagnarmi mia moglie Pina ed i nostri due figli, Franco Alberto e Iris, anch’essi desiderosi di rendere omaggio alla grande figura di Gioacchino Gesmundo e di conoscere la sua città natale.
Nel corso di questi anni, più pacati e carichi di consapevolezza, Sabino dedicava molto di se stesso alle amicizie e agli affetti, con una silenziosa generosità che faceva parte del suo stile di vita, rigoroso ed appartato. Di sé non amava parlare, anche se, quando la nostra amicizia divenne più intima, mi raccontò episodi legati ai rapporti con i grandi maestri che aveva avuto l’opportunità di frequentare a Brera, soprattutto Cantatore e Purificato. Oppure mi parlava della fede comunista dello zio Gioacchino e di altri membri della sua famiglia. Sempre da quello studio organizzava eventi importanti, come la celebrazione del Centenario della nascita di Gioacchino, avvenuta il 19 novembre 2008 presso la Scuola Elementare “Gioacchino Gesmundo” di Tor Sapienza. Una cerimonia importante che coinvolse tutti i bambini della scuola e culminò in una mostra dei lavori realizzati dalle classi. Un altro frutto prezioso di questo lavoro riservato, ma tenace e costante, è stata la pubblicazione di TESTIMONIANZE, un libro importantissimo, presentato sia a Terlizzi sia a Roma presso la “Casa della Memoria e della Storia”.
Io e Sabino abbiamo quasi la stessa età: abbiamo fatto in tempo a vedere gli ultimi resti del Medio Evo e i portenti tecnologici del XXI secolo, siamo passati dal carro trainato dagli asini alla discesa dell’uomo sulla Luna. Dentro questi radicali cambiamenti, Sabino ha viaggiato con animo aperto e curioso, ma con la barra diritta dell’uomo che conosce i doveri e sa affrontare la responsabilità: “L’uomo – mi diceva nel corso di una delle nostre lunghe conversazioni telefoniche – si è sottoposto al destino, ma all’interno di questo destino rimane sempre uno spazio di responsabilità, e questo è lo spazio della sua dignità”. Per questa ragione, pur non sapendo se egli si aggira ormai tra le pallide ombre dell’Ade oppure nella luce del Paradiso dei Cristiani, sono convinto che Sabino sia morto in pace e non abbia avuto bisogno di chiedere perdono, perché è vissuto all’insegna dell’onestà, del rispetto del prossimo, dei grandi valori della cultura e dell’arte. Secondo me Sabino possedeva una mente greca: il dolore del mondo non discende da una colpa originaria, ma dalle responsabilità e dalle scelte degli uomini. E come l’uomo greco non chiedeva una vita eterna, ma una vita lunga e felice. Allo stesso tempo, però, penso che egli abbia conseguito una forma di immortalità, quella che sta dentro la sua arte e dentro la strenua difesa della memoria dello Zio Gioacchino, un lascito prezioso per noi e per le prossime generazioni.
La suggestione pedagogica
La prossima mostra dei suoi quadri e la guida che la accompagnerà mi suggeriscono un’ultima considerazione che concerne la possibilità di utilizzare in ambito pedagogico l’opera pittorica di Sabino. Oggi lo sguardo degli uomini è a tal punto assediato dalla finzione che si pone il problema urgente della liberazione dello sguardo. Gli occhi sono lo sguardo e ognuno di noi non può delegare ad altri la responsabilità del suo esercizio, sia nel cercare la bellezza, sia nel rifiutare i precipizi dell’orrore o le paludi della banalità di alcune serie televisive. Com’è possibile disimpastare questa confusione nella quale è fatto prigioniero il nostro sguardo tra finzione e realtà? Pensiamo a quanto sia drammatico questo problema per i nostri figli negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza! Quando mai capita ad un bambino oppure a un adolescente oppure a noi stessi di osservare la natura con l’intensità dello sguardo di Sabino? Non possediamo più nemmeno i termini per descrivere certe percezioni, abbiamo perso il gusto di odorare i fiori, di ascoltare il vento, di osservare i tramonti per cercare di intravedere l’infinito. È una grave perdita dei sensi e dell’anima. La pittura è una risorsa straordinaria, consente di mettere a fuoco il lavoro dell’occhio, genera un’attenta perlustrazione delle cose e del mondo. La grande capacità del pittore è quella di darci l’esperienza dello sguardo originario, come se l’occhio si fermasse per la prima volta sulla scena dipinta. Questa freschezza dello sguardo l’uomo normale l’ha persa perché guarda non con l’occhio, ma con l’intelletto.
Io sono convinto che i quadri di Sabino, soprattutto se accompagnati da una lettura competente, possono aiutarci a purgare il nostro sguardo dalle immagini levigate e scivolose della pubblicità e della produzione mediatica per tornare a scegliere di vedere e che cosa vedere. Noi adulti, genitori e insegnanti, abbiamo una grande responsabilità verso i giovani. Essi sono fluidi come l’acqua, diventano ciò che l’immagine della società propone, anche se è illusorio e inconsistente, vivono in una sorta di torpore mentale, in un mondo atono dal punto di vista morale, tutto schiacciato in un presente televisivo fatuo e senza avvenire. Proponendo loro l’arte di Sabino, possiamo aiutarli a riprendersi il tempo, ad amare il tempo, a capire che ciò che conta nella vita non è il godimento dell’istante, ma la tensione verso una meta, il progetto. I quadri di Sabino ci ricordano l’antica adolescenza e ci restituiscono il sapore del tempo che scorre, del tempo che, sostenuto dalla memoria, ci conduce verso l’avvenire. Dobbiamo essere veramente convinti, come scrive Pietro Citati, che “ancora oggi sia possibile guardare il mondo con la tenera e delicata grazia di un bambino che costruisce i castelli di sabbia in riva al mare, lasciandosi incantare dalla vastità dello spazio e dalla libertà dei grandi orizzonti”. Grazie Sabino!
Lo porterò sempre nel mio cuore
di Gioacchino Gesmundo
Fratello
Sabino non è stato per me solo un fratello con il quale fare scorribande infantili, ma anche un amico. Avevamo amici comuni, con i quali confrontarci e giocare a palla di pezza lungo la strada, quando la circolazione veicolare era quasi inesistente, ma era anche il mio principale antagonista nei tornei di ping pong, oggi tennis tavolo, nelle Associazioni che frequentavamo.
Da piccolo seguiva costantemente papà nelle sue frequentazioni nelle botteghe artigianali di falegnameria: era la sua ombra. Aveva una particolare predisposizione per quei lavori: molte cornici dei suoi quadri sono state fatte prima con papà (anni ’70), successivamente da solo. Era capacissimo di usare i vari arnesi. Anche a Milano, nel suo studio-laboratorio, oltre a dipingere si ritagliava il tempo per adattare i vari telai, tirare e fissare le tele.
Oltre ad aver acquisito queste cognizioni, aveva arricchito e ampliato le sue conoscenze politiche ascoltando i discorsi che papà faceva con i compagni di partito; pur essendo minore di me, aveva una conoscenza degli avvenimenti storici più ampia, più ricca e più precisa della mia.
Completati gli studi, ci siamo trasferiti al Nord, in cerca di miglior fortuna; io ho continuato a fare l’insegnante, lui dopo alcune esperienze da professore nelle Scuole Medie e negli Istituti Professionali in Brianza, volle seguire la sua predisposizione alla pittura. S’iscrisse all’Accademia di Belle Arti di Milano, diventando allievo prediletto del Maestro Domenico Cantatore, e successivamente suo assistente per due anni.
I soldi erano pochi e Sabino continuava a dipingere su tutto quello che gli capitava tra le mani: su cartoni, su pezzi di compensato, su legno e, quando aveva qualche soldino in più, su tela.
Per perfezionare la sua inclinazione, frequentò un corso d’incisione all’Accademia Raffaello di Urbino. Spesso stampava le incisioni con un torchio a mano che aveva nel suo studio in piazza Sant’Agostino a Milano. Esperienza durata pochi anni. Si dedicò con maggiore continuità e impegno all’insegnamento, che gli dava maggiore sicurezza economica rispetto alla libera professione, attento alle varie correnti europee di avanguardia pittorica.
Le sue vacanze le ha trascorse sempre e solo in Puglia: a Terlizzi. Negli anni 1970-85 aveva uno studio in via Gorizia n. 6; lì trascorreva i suoi tre mesi di vacanza che coincidevano con la chiusura delle scuole, chiacchierando con papà e i suoi amici, che si fermavano da lui mentre dipingeva.
Quando i nostri genitori, nel 1985, si trasferirono al Nord, le sue vacanze estive si ridussero di molto. Era a Terlizzi per circa un mesetto a fare compagnia a nostra madre, che in estate voleva ritornare al paese natìo. Per questo motivo Sabino decise di non mantenere aperto il suo studio.
Era molto legato alla mamma. Quando andò in pensione nel 1997, pur frequentando sempre Milano per non ridurre i suoi rapporti professionali, la sera rientrava prima del solito a Lecco perché doveva parlare di tutto con la mamma, ricordare feste, tradizioni, personaggi locali, piatti tipici (come le orecchiette, fatte da lei) nonché ricordi di parenti e di avvenimenti del passato.
Terminato l’insegnamento, ha continuato la sua ricerca personale, riferita non solo alle varie esperienze pittoriche ma anche a quella storica sugli avvenimenti dell’ultimo conflitto mondiale. Si documentava sui tragici avvenimenti che avevano portato all’eccidio delle Fosse Ardeatine dove morì nostro zio, il prof. Gioacchino Gesmundo, e prese contatto epistolare o telefonico con varie istituzioni, con i dirigenti delle scuole dove aveva insegnato lo zio, con qualche suo ex alunno, con il prof. Lisi, autore del libro L’altro martire di Terlizzi. Gioacchino Gesmundo. Era in corrispondenza anche con l’on. Pietro Ingrao, con il prof. Mario Fiorentini, aiutante dello zio nelle varie azioni di disturbo ai nazifascisti, e con i dirigenti scolastici delle scuole intitolate allo zio: la Scuola Elementare di Roma, la Scuola Media di Terlizzi. Ci suggerì di istituire presso la Scuola Media di Terlizzi una borsa di studio, non grosse cifre, per l’alunno con la migliore votazione e che fosse meno abbiente degli altri, cosa che facemmo e che continuiamo a fare. Il premio viene assegnato ogni anno il 24 marzo.
Raccolse molto materiale sullo zio, che volle ordinare con l’aiuto dell’amico Renato Brucoli nel libro pubblicato per il Centenario della nascita con il titolo Testimonianze. Fu presentato a Terlizzi dal prof. Nilo Cardillo, preside del Liceo Vitruvio Pollione di Formia, prima sede d’insegnamento di Storia e Filosofia dello zio.
Ricordando i suoi trascorsi di incisore, nel 2004, per il 60° anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, realizzò la cartella grafica In memoria di Gioacchino Gesmundo. In quell’occasione ebbe modo di conoscere, prima epistolarmente e poi di persona, la signora Grazia Stasi Grosso di Ruvo, che aveva frequentato l’Istituto Magistrale Bianchi Dottula di Bari come condiscepola dello zio, ricevendo molte notizie su di lui sia come studente modello sia sulla sua passione e predisposizione allo studio della filosofia.
Sabino, durante il soggiorno estivo a Terlizzi trascorreva molto tempo passeggiando per i vicoli del vecchio nucleo, alla ricerca di profumi, ricordi infantili, vecchie tradizioni della sua cara e amata città, nonché dei colori brillanti, lucenti e vivi che trasferiva nei suoi quadri.
Era conosciuto da molti per il suo trascorso: nipote del prof. Gesmundo e allievo del Maestro Cantatore di Ruvo. Essendo diventato estroverso negli ultimi anni, parlava con tutti, s’informava di tutto. Conosceva molte persone, i loro nuclei familiari, i cosiddetti “nomignoli”, caratteristica tipica delle famiglie terlizzesi.
Durante le vacanze non era inoperoso; incominciò a stringere amicizia con i vari ceramisti locali (D’Aniello, Saldarelli) e spesso si recava nelle loro fornaci o laboratori a cercare vecchie lucerne, bottiglie dalle forme più strane, brocche, anfore, oggetti vari e vasi in terracotta ai quali si divertiva a dare una patina di colore particolare. Successivamente chiese loro di riprodurre, in qualche piatto, la figura del gallo, uno dei suoi soggetti preferiti, già rappresentato nei quadri insieme al tronco d’ulivo. Fornì ai ceramisti “lo spolvero” del modello da riprodurre e chiese che i colori fossero vivi, brillanti e il più possibile vicini all’originale.
Aveva approfondito e perfezionato le sue conoscenze pittoriche continuando a visitare mostre e a documentarsi. Aveva una ricca conoscenza dei vari pittori, e quando capitava una chiacchierata con gli amici su alcune opere riprodotte in riviste o documentari, diceva a ragion veduta la sua, non per il gusto di parlare o di fare confronti, ma per commentare l’opera oggetto di osservazione e sottoporla, magari, a giudizio critico secondo la sua sensibilità pittorica.
Negli ultimi soggiorni a Terlizzi aveva fatto amicizia con lo scultore Pietro De Scisciolo, incaricato dal Comitato Vite Esemplari, costituito nel 2006, di modellare un monumento, Memoria e Identità, che ricordasse i due Martiri terlizzesi, il prof. Gioacchino Gesmundo e don Pietro Pappagallo, dei quali le varie Amministrazioni Comunali hanno dimenticato il loro contributo di sangue dato alla Patria per promuovere ideali di libertà e di democrazia.
Spesso era nel laboratorio terlizzese in cui lo scultore De Scisciolo modellava i personaggi. Voleva che la figura dello zio fosse il più possibile aderente alle sue conoscenze. Lo zio somigliava tantissimo a papà. Pur amando tanto lo zio, non volle essere un componente del Comitato Vite Esemplari, volle che fossi io: «Devi essere tu, perché porti il suo stesso nome». Allora accettai. Era stato più volte con noi in fonderia a Modugno dove si stava assemblando la statua, ed era orgoglioso e felice del lavoro compiuto. Peccato che all’inaugurazione del monumento, il 24 marzo 2011, non fosse a Terlizzi e non abbia potuto vedere il progetto realizzato.
La sua prematura scomparsa non gli ha concesso di essere a Terlizzi nemmeno alla presentazione del libro sui confinati a Ventotene, che tratta di cinque antifascisti terlizzesi deportati nell’isola, fra cui zio Giovanni, al quale Sabino aveva voluto dedicare un suo caro ricordo personale.
Il libro è nato proprio su sua sollecitazione. Gli autori, il prof. Renato Brucoli e l’on. Gero Grassi, nella presentazione hanno ricordato che le linee guida del lavoro sono state appuntate proprio da Sabino su un foglio di quaderno che Renato conserverà gelosamente tra i suoi ricordi più cari.
È il Sabino che ho conosciuto, con il quale mi sono anche scontrato, al quale ho voluto tanto bene e che porterò sempre nel mio cuore.
Ciao, Ninillo